martedì 1 maggio 2012

La colpa

canzone tratta dall'album "DA LONTANO"

A lungo questa canzone e’ stata considerata da me e un po’ da tutto il gruppo un’ottima rappresentante della nostra musica. E’ finita su qualche compilation, certamente su “soniche avventure volume I” di the Fridge. La genesi del brano mi e’ stata ispirata dall’ascolto, assiduo in quel periodo (1993/94) dell’album Forever dei Cranes.  Tutt’oggi reputo quell’album uno dei piu’ ispirati  di tutta la mia collezione. Ricco di melodie straordinarie e di arrangiamenti intelligenti. Scoprii i Cranes una notte ascoltando rai uno o rai due. Chi conduceva la trasmissione presentava l’album in uscita e fece ascoltare  tre brani. Restai incantato e incuriosito da cio’ che ascoltavo. Qualche giorno piu’ tardi comprai il vinile e registrai su di un’audiocassetta le tre canzoni che avevo gia’ sentito la sera prima alla radio. Il motivo per cui non le registrai tutte resta ad oggi un mistero. Questa cassetta fu la colonna sonora praticamente in  moto perpetuo di un viaggio di lavoro  Milano Reggio Emilia e ritorno. Con la macchina piena di maglieria e camicie di un campionario che allora vendevo, partii per visitare un cliente con i Cranes in sottofondo. Sottofondo che si interrompeva giusto per il tempo di riportare indietro il nastro e farlo ripartire. Fu davvero qualcosa ai confini tra l’autismo, da una parte, e la costanza di un monaco zen che pratica la meditazione seduta per ore dall’altra. L’innamoramento iniziale si trasformò  presto in un  vero e solido amore musicale. Tornando alla colpa, che sto riascoltando proprio mentre scrivo,il punto di forza della canzone, il suo hook, il gancio che secondo noi poteva afferrare l’ascoltatore era rappresentato dalla melodia delle tastiere ( credo che lo confermasse anche un amico\amica di Renato) unita al ritmo medio- intenso della batteria. Il cantato, meglio, il mio sussurrato,  mi pare oggi davvero velleitario ed artefatto.  In compenso, annegato in un riverbero quanto meno sovrabbondante e dal carattere piuttosto spettrale.  Quello che ancora mi piace è invece l’incedere della batteria di Rena che incidemmo in cantina con i microfoni. Tra questi, quello usato per registrare la cassa, era un vecchio microfono che pareva uno di quelli che si vedono nei festival di San Remo anni 50\60. Ne andavamo orgogliosi di questo microfonetto vintage. Il mixaggio dei diversi tamburi e dei piatti non è proprio accuratissimo ma, a distanza di tempo, come ogni tanto accade, i difetti diminuiscono all’ascolto mentre si accentuano i pregi insiti nei difetti. Intendo dire che un’ imperfezione, con la distanza che il tempo mette sempre tra le diverse cose della vita e il  nostro coinvolgimento in esse, un’imperfezione, dicevo,  si trasforma in  un colore che puo’ emozionare e sa farlo  anche se si intuisce che qualcosa, in fondo, non e’ proprio al giusto posto. Nel mix c’è poca cassa, in compenso un buon rullante e soprattutto un ottimo lavoro di Renato che, senza sovraincisioni, sovrapposizioni, copia e incolla e trucchi vari, ha inciso il brano con il metronomo in cuffia senza poter sbagliare. Dall’inizio alla fine. riascoltando il ritmo e pensando ai nostri pochissimi e poveri mezzi resto davvero sorpreso e commosso. La chitarra era suonata con un’accordatura aperta, un’accordatura cioe’ diversa dalla canonica mi, la,re,sol,si,mi. L’avevo trasformata in un’ eterodossa: do,fa,do, do, fa do. La  possibilità stava soprattutto in un certo suono raddoppiato e rinforzato    ( quasi corale) di alcune corde e  note. Anche il basso mi piace al riascolto. E’ una specie di ostinato, un pattern di due note che cambia solo nell’inciso ma che rimane fisso e stabile come un albero sia nella strofa che durante la melodia a-solo delle tastiere. Il testo lo trovo datatissimo, superato e superabile. Le parole dipingono uno scenario  troppo oscuro e opprimente. Certamente lontano da cio’ che ora scriverei. Ricordo che leggendo Kafka in quel periodo ed in particolare:“il processo”ero stato assolutamente avvinto dalla scena finale in cui due uomini, che camminano in modo meccanico e disumano, conducono il protagonista in un angolo per compiere il verdetto di morte con un coltello. L’uomo,  all’inizio del romanzo, era stato tratto in arresto per un delitto che nessuno sapeva spiegargli. Alla fine, non solo non opponeva resistenza alla condanna e alle due terrificanti quanto ridicole figure che lo accompagnavano ma, anzi, offriva loro il suo collo pur non avendo capito ancora di cosa venisse accusato. Si lasciò uccidere. Ecco il passaggio finale: “ ma sulla gola di k. si posarono le mani di uno dei signori, mentre l’altro gli sprofondava il coltello nel cuore e ve lo rigirava due volte. Con gli occhi che ormai si spegnevano k, vide ancora i due signori, guancia a guancia, vicinissimi al suo viso, osservavano l’atto conclusivo. < come un cane!> disse e gli parve che la vergogna gli dovesse sopravvivere”.La grigia, chirurgica meraviglia che il romanzo  suscita e’ tutta  nell’idea che si puo’ essere in arresto pur continuando a vivere normalmente cercando via via di discolparsi di qualcosa che non si sa bene cosa sia. Una colpa connaturata all’uomo. Una sorta di peccato originale che nasce con l’uomo.  Un peccato con cui ognuno deve confrontarsi. Durante la storia si deduce che in qualche modo ci sarebbe un modo per pagare il debito con la vita per  riuscire a salvarsi ma nessuno da’ una procedura, un indizio chiaro da seguire. Solo  illazioni, mezze frasi, sorrisi rassegnati, allusioni.  E poi la soffitta in cui stava il tribunale. Una luogo angusto, ordinario che non aveva e mostrava alcunché di ufficiale ma, anzi, dava una sensazione di claustrofobico dilettantismo misto ad una laboriosa improvvisazione. Avendolo da poco riletto (per il vero audioletto in macchina mentre andavo per il  mio solito lavoro di rappresentante) ”il processo” mi pare una perfetta rappresentazione di come quasi ogni uomo viva la sua vita. L’uomo e’ in prigione. Non una prigione con sbarre, cancello e secondini. Ma una prigione costituita da cio’ in cui egli crede ma non verifica mai. Da cio’ che egli crede giusto o sbagliato, limitato o illimitato. Ma che, appunto, resta in forma di credenza, di dogma. L’idea  illuminante  le pagine  sta nel fatto che esistono gradi diversi in cui l’uomo spende la sua esistenza . Puo’ vivere la vita senza che mai gli venga fatto notare di essere uno schiavo. Oppure ad un certo punto egli puo’ sentire l’annuncio, come e’ il caso di K. Questo equivale a dire che da quel momento K. sa  per certo di essere accusato, di essere in una condizione diversa da quella di qualche attimo prima. Ma la sostanza non cambia. Solo che a lui e’ dato sapere che si trova in arresto. Il motivo dell’accusa resta vago, da Indovinare, da supporre, da intuire. Mai chiarito. Non vi e’ nulla, pare di capire, di particolare. Semplicemente gli e’ stato mostrato lo stato in cui ha da sempre vissuto e  la sua colpa, pare, sia quella di non essersi accorto che gia’ era imprigionato. Ecco i due livelli dunque. Il primo: la piu’ assoluta inconsapevolezza. Il secondo: l’annuncio sinistro dei due emissari. Qualcosa non va, non e’ appropriato, non e’ giusto. Il tuo stare nella vita e’ mutato. Sei accusato. Devi cercare una via d’uscita. Il povero K.  Vive ora nella consapevolezza che qualcosa e’ stato fatto, di cui egli non sa nulla ma che cosa sia questo qualcosa  non gli e’ dato saperlo. Come se, dovesse egli stesso intuire le istruzioni per l’uso da frammenti di carta gettati addosso in disordine e spezzettati ad arte. Pezzi che furono un tempo di un libretto d’istruzioni per potersi forse salvare ed orientare.
 Piero

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