venerdì 25 maggio 2012

ospiti a RockTV

Era il 7 marzo del 2005.
Ospiti della trasmissione DATABASE di RockTV, per la presentazione dell'album "Le meccaniche del quinto" e del video di "Caffè Viennese".

















I video musicali presentati durante la trasmissione sono stati rimossi in questo filmato per motivi di copyright.

lunedì 14 maggio 2012

Preghiera al dio dei gufi

Ogni miseria del quotidiano, con pazienza puo' essere estinta. E cosi' gli affanni, le paure, le tentazioni, le delusioni, la noia, la meccanica ripetitivita' delle cose vissute solo di sfuggita; non colte. Bellezza. Ecco, la bellezza ne è l'antidoto. Alfa ed omega, inizio e fine. Come una libellula che passando a pochi centimetri dalla tua testa pensierosa ed oppressa, sotto un ombrellone, al mare, in un cielo azzurro e bianco d'Agosto, porta via, nel suo volo svelto, ogni apprensione ed ogni inutilita'. E i pensieri cambiano. Tu cambi.
Raramente ho incontrato una preghiera di cosi' intensa innocenza, di cosi' tersa e trasparente aderenza alla vera essenza della vita. La vita che si manifesta nei pollini di Maggio, nelle nuvole nere che annunciano la pioggia, nella pioggia che infine cade copiosa lavando l'aria e la terra. La vita come una sfera che ci contiene. Una sfera trasparente tanto che nemmeno, a volte, riusciamo a percepirla davvero.
Un diamante luminoso e prezioso la preghiera al dio dei gufi. Ha accarezzato, prima, e poi afferrato e preso con se' il mio cuore. Anzi è il mio cuore che ad essa si e' stretto commosso. E non la vuole lasciare. E non la lascera'. La bellezza salvera' il mondo disse un giorno Fedor Dostoevsky. Nella bellezza tutto si compie prego' un giorno Bear Heart ( cuore d'orso). 
Siate benedetti.
Piero

domenica 6 maggio 2012

L'albero e il punto


Spesso, quando scrivo, guardo fuori dalla finestra del mio studio.
Proprio davanti a me, a ridosso dei vetri, quasi a lambirli, c'è un abete sempreverde che anche d' inverno resta rigoglioso e fa da riparo ai merli quando piove. Sulla destra, sul lato occidentale del parco, più lontano in prospettiva c'è un grande albero, un pioppo. Svetta su tutto e tutti.
E, anche se un po' isolato, pare controllare i suoi simili li' attorno come un anziano padre o come un severo e rispettato direttore d'orchestra che detta il ritmo e le cadenze del dondolio dei rami e delle foglie quando si alza il vento. Pare uno di quei capi banda di paese  fieri e umili nella loro uniforme ufficiale da esibizione. E' spoglio. I suoi rami piu' bassi hanno un palazzo giallo come sfondo, quelli piu' alti e magri  come sfondo hanno il cielo. Ora il cielo è colorato d' azzurro e d' arancio. Sta tramontando il sole. Questo albero così grande e quasi immobile sta la' fuori, al freddo. E' spoglio, dicevo, ma magnifico. Man mano che sale in alto la sua struttura si alleggerisce e sembra snellirsi. Ora lo guardo e mentre lo guardo, ascolto, rinchiuso nel mio studio, al caldo di un termosifone adiacente alla finestra, alcuni brani per orchestra di Nino Rota. Rota, il preferito tra i musicisti da Federico Fellini. Ricordo che mi colpi' anni fa leggere su un giornale che mori' nello stesso anno e nello stesso mese di mio nonno, e allo stesso modo, in una mattina estiva e soleggiata di giugno del 1979. Poco, quella mattina cosi' tersa e leggera, pareva aver a che fare con qualsiasi fine. Sorrido, sono solo ma sorrido come se di fianco o di fronte a me ci fosse qualcuno, come se mi stessero inquadrando per una foto. Sento vivere ogni cosa attorno a me mentre, fissando a lungo questo gigante, la mia attenzione si sposta e scorge il perpetuo ondeggiare del mio respiro. Il mio respiro. L'unica cosa in me che possa sincronizzarsi al ritmo dettato dal vento e mimato dai rami. Qualcosa di più vasto ci racchiude e ci comprende come fosse un'enorme campana  trasparente che sa racchiudere ed abbracciare oltre noi, anche il contesto intero in cui noi due ora ci muoviamo, viviamo e siamo.
 Io e lui difatti viviamo. E vive l'insieme. Ora lo sento. Ora lo so.
I brani per orchestra mi riportano alla mente una persona. Era una ragazza. Tanti anni fa questa ragazza aveva sedici anni ed eravamo innamorati. I miei occhi si chiudono all'ennesima esplosione di archi e di timpani della musica di Rota. Lei e' davanti a me anche se morì quattro anni fa. L'albero e' sempre li' e sembra scrutarmi con nobiltà, quasi pudicamente, lasciandomi  tranquillo in questo mio angolo di casa davanti ad una scrivania. Non mi posso nascondere, percepisco questa impossibilita', perche' ora non ci sono distanze, manca lo spazio e manca il tempo. Anche l'alto e il basso si confondono.
 Tutto a volte diventa un punto. Un punto in cui vive cosa. Ogni forza ed ogni debolezza, ogni potere ed ogni misericordia. Un punto in cui convivono ogni padre ed ogni madre, ogni tempo ed ogni non tempo mai esistiti. Un tempo, un luogo in cui coesistono ogni elevazione ed ogni caduta, ogni ascesa ed ogni abisso. Tutto e' sempre qui ed esisterà per sempre. Non da qualche parte. Proprio qui, proprio adesso.
Ora il cielo si è scurito. Le luci artificiali nelle case si accendono. Qualcuno dietro quelle luci gialle o bianche che paiono  appese ai balconi, stara' preparando la cena o apparecchiando la tavola per la propria famiglia o per qualcuno che deve ancora rientrare. Altri staranno seguendo distrattamente qualche immagine colta con la coda dell'occhio mentre girano distratti per la casa. Immagini, suoni spezzati senza continuita' da una televisione che immagino grigia e  messa li' in qualche angolo a me sconosciuto.
Domani mattina verso le otto quando scenderò per prendere il caffé quelle luci saranno spente.
Domani, mi dicono, ci sara' il sole.

Piero

martedì 1 maggio 2012

La colpa

canzone tratta dall'album "DA LONTANO"

A lungo questa canzone e’ stata considerata da me e un po’ da tutto il gruppo un’ottima rappresentante della nostra musica. E’ finita su qualche compilation, certamente su “soniche avventure volume I” di the Fridge. La genesi del brano mi e’ stata ispirata dall’ascolto, assiduo in quel periodo (1993/94) dell’album Forever dei Cranes.  Tutt’oggi reputo quell’album uno dei piu’ ispirati  di tutta la mia collezione. Ricco di melodie straordinarie e di arrangiamenti intelligenti. Scoprii i Cranes una notte ascoltando rai uno o rai due. Chi conduceva la trasmissione presentava l’album in uscita e fece ascoltare  tre brani. Restai incantato e incuriosito da cio’ che ascoltavo. Qualche giorno piu’ tardi comprai il vinile e registrai su di un’audiocassetta le tre canzoni che avevo gia’ sentito la sera prima alla radio. Il motivo per cui non le registrai tutte resta ad oggi un mistero. Questa cassetta fu la colonna sonora praticamente in  moto perpetuo di un viaggio di lavoro  Milano Reggio Emilia e ritorno. Con la macchina piena di maglieria e camicie di un campionario che allora vendevo, partii per visitare un cliente con i Cranes in sottofondo. Sottofondo che si interrompeva giusto per il tempo di riportare indietro il nastro e farlo ripartire. Fu davvero qualcosa ai confini tra l’autismo, da una parte, e la costanza di un monaco zen che pratica la meditazione seduta per ore dall’altra. L’innamoramento iniziale si trasformò  presto in un  vero e solido amore musicale. Tornando alla colpa, che sto riascoltando proprio mentre scrivo,il punto di forza della canzone, il suo hook, il gancio che secondo noi poteva afferrare l’ascoltatore era rappresentato dalla melodia delle tastiere ( credo che lo confermasse anche un amico\amica di Renato) unita al ritmo medio- intenso della batteria. Il cantato, meglio, il mio sussurrato,  mi pare oggi davvero velleitario ed artefatto.  In compenso, annegato in un riverbero quanto meno sovrabbondante e dal carattere piuttosto spettrale.  Quello che ancora mi piace è invece l’incedere della batteria di Rena che incidemmo in cantina con i microfoni. Tra questi, quello usato per registrare la cassa, era un vecchio microfono che pareva uno di quelli che si vedono nei festival di San Remo anni 50\60. Ne andavamo orgogliosi di questo microfonetto vintage. Il mixaggio dei diversi tamburi e dei piatti non è proprio accuratissimo ma, a distanza di tempo, come ogni tanto accade, i difetti diminuiscono all’ascolto mentre si accentuano i pregi insiti nei difetti. Intendo dire che un’ imperfezione, con la distanza che il tempo mette sempre tra le diverse cose della vita e il  nostro coinvolgimento in esse, un’imperfezione, dicevo,  si trasforma in  un colore che puo’ emozionare e sa farlo  anche se si intuisce che qualcosa, in fondo, non e’ proprio al giusto posto. Nel mix c’è poca cassa, in compenso un buon rullante e soprattutto un ottimo lavoro di Renato che, senza sovraincisioni, sovrapposizioni, copia e incolla e trucchi vari, ha inciso il brano con il metronomo in cuffia senza poter sbagliare. Dall’inizio alla fine. riascoltando il ritmo e pensando ai nostri pochissimi e poveri mezzi resto davvero sorpreso e commosso. La chitarra era suonata con un’accordatura aperta, un’accordatura cioe’ diversa dalla canonica mi, la,re,sol,si,mi. L’avevo trasformata in un’ eterodossa: do,fa,do, do, fa do. La  possibilità stava soprattutto in un certo suono raddoppiato e rinforzato    ( quasi corale) di alcune corde e  note. Anche il basso mi piace al riascolto. E’ una specie di ostinato, un pattern di due note che cambia solo nell’inciso ma che rimane fisso e stabile come un albero sia nella strofa che durante la melodia a-solo delle tastiere. Il testo lo trovo datatissimo, superato e superabile. Le parole dipingono uno scenario  troppo oscuro e opprimente. Certamente lontano da cio’ che ora scriverei. Ricordo che leggendo Kafka in quel periodo ed in particolare:“il processo”ero stato assolutamente avvinto dalla scena finale in cui due uomini, che camminano in modo meccanico e disumano, conducono il protagonista in un angolo per compiere il verdetto di morte con un coltello. L’uomo,  all’inizio del romanzo, era stato tratto in arresto per un delitto che nessuno sapeva spiegargli. Alla fine, non solo non opponeva resistenza alla condanna e alle due terrificanti quanto ridicole figure che lo accompagnavano ma, anzi, offriva loro il suo collo pur non avendo capito ancora di cosa venisse accusato. Si lasciò uccidere. Ecco il passaggio finale: “ ma sulla gola di k. si posarono le mani di uno dei signori, mentre l’altro gli sprofondava il coltello nel cuore e ve lo rigirava due volte. Con gli occhi che ormai si spegnevano k, vide ancora i due signori, guancia a guancia, vicinissimi al suo viso, osservavano l’atto conclusivo. < come un cane!> disse e gli parve che la vergogna gli dovesse sopravvivere”.La grigia, chirurgica meraviglia che il romanzo  suscita e’ tutta  nell’idea che si puo’ essere in arresto pur continuando a vivere normalmente cercando via via di discolparsi di qualcosa che non si sa bene cosa sia. Una colpa connaturata all’uomo. Una sorta di peccato originale che nasce con l’uomo.  Un peccato con cui ognuno deve confrontarsi. Durante la storia si deduce che in qualche modo ci sarebbe un modo per pagare il debito con la vita per  riuscire a salvarsi ma nessuno da’ una procedura, un indizio chiaro da seguire. Solo  illazioni, mezze frasi, sorrisi rassegnati, allusioni.  E poi la soffitta in cui stava il tribunale. Una luogo angusto, ordinario che non aveva e mostrava alcunché di ufficiale ma, anzi, dava una sensazione di claustrofobico dilettantismo misto ad una laboriosa improvvisazione. Avendolo da poco riletto (per il vero audioletto in macchina mentre andavo per il  mio solito lavoro di rappresentante) ”il processo” mi pare una perfetta rappresentazione di come quasi ogni uomo viva la sua vita. L’uomo e’ in prigione. Non una prigione con sbarre, cancello e secondini. Ma una prigione costituita da cio’ in cui egli crede ma non verifica mai. Da cio’ che egli crede giusto o sbagliato, limitato o illimitato. Ma che, appunto, resta in forma di credenza, di dogma. L’idea  illuminante  le pagine  sta nel fatto che esistono gradi diversi in cui l’uomo spende la sua esistenza . Puo’ vivere la vita senza che mai gli venga fatto notare di essere uno schiavo. Oppure ad un certo punto egli puo’ sentire l’annuncio, come e’ il caso di K. Questo equivale a dire che da quel momento K. sa  per certo di essere accusato, di essere in una condizione diversa da quella di qualche attimo prima. Ma la sostanza non cambia. Solo che a lui e’ dato sapere che si trova in arresto. Il motivo dell’accusa resta vago, da Indovinare, da supporre, da intuire. Mai chiarito. Non vi e’ nulla, pare di capire, di particolare. Semplicemente gli e’ stato mostrato lo stato in cui ha da sempre vissuto e  la sua colpa, pare, sia quella di non essersi accorto che gia’ era imprigionato. Ecco i due livelli dunque. Il primo: la piu’ assoluta inconsapevolezza. Il secondo: l’annuncio sinistro dei due emissari. Qualcosa non va, non e’ appropriato, non e’ giusto. Il tuo stare nella vita e’ mutato. Sei accusato. Devi cercare una via d’uscita. Il povero K.  Vive ora nella consapevolezza che qualcosa e’ stato fatto, di cui egli non sa nulla ma che cosa sia questo qualcosa  non gli e’ dato saperlo. Come se, dovesse egli stesso intuire le istruzioni per l’uso da frammenti di carta gettati addosso in disordine e spezzettati ad arte. Pezzi che furono un tempo di un libretto d’istruzioni per potersi forse salvare ed orientare.
 Piero